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Storia del complesso conventuale di Santa Caterina e
del suo contesto artistico - culturale: la pala d'altare
del martirio di Santa Caterina d'Alessandria,
del Belisario Corenzio
 
foto di Mimmo Feola
 

Il contesto monastico benedettino di Teano, il quale ha visto il suo nascere nel lontano 1554, conserva e custodisce la magnifica opera pittorica del Martirio di Santa Caterina, del frescante greco Corenzio.
Il complesso abaziale, con una storia di quasi cinque secoli, si puntella su preesistenti edifici di cui se ne conserva memoria archeologica e documentaria. In effetti, indagini preventive di scavo, riportano, inglobate nell'ala occidentale conventuale, resti di un sistema termale con ninfeo che è stato ascritto alla fine del I sec. a.C./inizi I sec. d. C. e restaurato nel III sec. dell'era volgare.
Il ricordo di questa vasta area termale, coadiuvata da ampie cisterne, fa eco sia in una “carta oblationis” del 925 in cui si legge “oblatio terrae cum domo in Civitate Theani juxta balneum antiquum”, sia nella “carta offertionis seu donationis pro salute animae” del 986 dei conti longobardi di Teano Atenolfo e Landone, in cui il ricordo di cisterne, di una fonte d'acqua che scorre in mezzo alla via di loro pertinenza, cioè la Rua e la presenza di un ”guaizo”, e di uno “janeczu”, ossia di un porticato coperto che porta allo “stabblu et valneum” (piscina e bagno) riportano, in modo inconfutabile all'area termale e quindi al ninfeo.
Il complesso monastico custodisce anche una splendida cappella che già dal 1511 era dedicata a S. Nicola dei Greci, protettore dell'Ordine dei Lazzariti, ordine ospitalare che con molta probabilità occupava gli antichi ambienti dell'attiguo complesso architettonico del Loggione, con l'intento di curare scabbia e lebbra. La nuova titolazione, dedicata a Santa Caterina, fu data, all'antica cappella di San Nicola dei Greci, solo nel 1539 allorquando, fu traslato, dal cenobio dei Padri Celestini, sito nei pressi della porta detta della Rua o di Sotto, lo Xenodochio gestito dalla confraternita laica di Santa Caterina a Majella, esistente già dal 1300, in questa città.
La traslazione sarebbe stata consequenziale alla chiusura del convento dei Celestini mentre la scelta per l'occupazione di un ricovero per malati e pellegrini, fu proprio determinata da un ambito urbano, presente nel borgo medioevale di Teano che, tra la fine del IX sec. e gli inizi X presentava una contestualizzazione occupazionale a carattere ospedaliero, compreso tra Porta San Nazarii ed un Terralium ebraico, ben ricordata dal Pezzulli, come area dall'antico ospedale di San Nazario.
È molto probabile che l'antico ospedale fosse collegato ad una chiesa, appunto alla chiesa di San Nazarii che, un atto del 906, colloca in Theano. Orbene la toponomastica urbana concentra il dualismo calata San Nazzaro - calata San Lazzaro nell'ambito occupazionale conventuale a tutto vantaggio dell'ipotesi di studio che l'odierna chiesa di Santa Caterina altro non fosse, in origine, che l'antica chiesa di San Nazario con annesso ospedale, sito nei pressi della porta orientale della città, definita, per tradizione, porta San Nazzaro.
Tutto ciò a conferma dei dati storici che tramandano la riqualificazione delle antiche strutture ospedaliere in ambiente monastico-conventuale, riqualificazione voluta dalla prima badessa benedettina Carmignano e maturata intorno al 1568, non solo con le antiche rendite della confraternita di Santa Caterina a Majella e dell'antico ospedale, ma anche con i beni lasciati del Canonico Morrone alla nuova istituzione monastica benedettina.
Ed il monastero, in effetti, come si rileva da documentazioni del 1597, era ben dotato di molti stabili, di “poteche dentro la citta di Theano, iuxta piazza pubblica”, che avrebbero fruttato molti ducati.
Per cui il complesso monastico di Santa Caterina sorse con una monumentale dimensionalità, sorgendo nel cuore della città medievale e rubando da secoli compostezza e calma all'affollarsi chiassoso della vita che, ancora si dipana negli intrigati vicoli del Borgo.
Ebbene questa prestigiosa comunità benedettina fu il frutto della volontà di un pensiero politico-religioso, in ambito controriformato e quindi espressione sia di un'istituzione laica quale l'Università teanese, nella figura di Luigi Galluccio sia di una decisionalità feudale quale quella della principessa di Stigliano, Clarice Orsini.
L'intento che animò le due parti laiche, appena citate, alla formazione di un nuovo complesso monastico che rispondesse alle nuove esigenze di un cattolicesimo riformato, fu quello di svolgere un'azione di propaganda e di riorganizzazione delle istituzioni ecclesiastiche, basandosi anche sul migliorando del livello di vita religioso degli organi monastici, come si connoterà per il convento di S. Caterina, responsabile, per altro, di rilanciare, in Teano e quindi, anche in ambito provinciale, le prescrizioni del concilio di Trento.
Ciò spiegherebbe la neo formazione dell'istituzione monastica benedettina di Santa Caterina, aperta ad ogni ceto e classe sociale in concorrenza ai complessi monastici nobiliari, già preesistenti, di Santa Maria de Foris, Santa Maria de Intus e di Santa Reparata.
Pertanto, il convento beneficiò di un livello di vita claustrale dignitosa ed anche confortevole, realtà che si evince, ancora, in un documento del 1655 relativo all'«Antico Stato del Venerabile Monastero di S. Caterina», in cui, attraverso scritti dalla badessa dell'epoca Donna Dianora Galluccio, si sottolinea che il convento disponeva di ampie risorse materiali “acciocché le serve di Dio meglio si sarebbero date al servizio divino”.
E così, quel che si è detto finora è testimonianza di quell'incremento di iniziative che a partire dall'ultimo quarto del '500, mirarono ad arricchire, confortevolmente, la parte abitativa monastica e ad incentivare la proliferazione del corredo liturgico ed artistico della cappella monastica.
Ed in questo contesto proliferò un corredo liturgico a carattere soprattutto promulgativo della cattolicità riformata e che vide commissionata, per la chiesa di S. Caterina, la pala d'altare del martirio della santa citata. In effetti la rappresentazione pittorica del Corenzio, offre un modello artistico in cui la creazione del soggetto partecipa il linguaggio propedeutico della Controriforma, un linguaggio pittorico che, esaltando le “immagini di pietà” attraverso scorci in cui identificando sofferenze patite ad opera della tortura, promuoveva una commossa partecipazione devozionale, schiettamente popolare.
Dunque, l'opera, facendo parte, tout-cour, di un contesto culturale controriformato, iconograficamente, non poteva non presentare un'immagine di Santa in cui non si avvertisse sia la tensione dolorosa del martirio sia l'estasi divina, elemento proprio di ambiti monastici. Infatti in questa realtà pittorica, il martirio della Santa è ben evidenziato dalle ruote dentate mentre l'estasi è espressa da una potente luce divina, che colpisce ed illumina in pieno, Caterina; luce simbolo dell'unione diretta con Dio.
Il Corenzio dunque più che gli strumenti del martirio, ha voluto evidenziare l'esperienza estatica, ponendo al centro della pala, fulcro d'attrazione, l'elemento visivo più caratteristico e determinante: S. Caterina con le braccia tese, prototipo di ascesa, simbolo di santità e comunione traumatica con la divinità.
La Santa, solo lei, partecipa con lo sguardo verso il cielo alla gloria che si intravede sulla sommità dell'icona, gloria rappresentata dal cherubino che la incorona a monito che di fronte alla potenza divina, espressa dall'immagine dell'Arcangelo Michele con la spada tratta, inutili sono gli strumenti iniqui dei carnefici, colpiti dai dardi dei Serafini.
Per cui S. Caterina d'Alessandria, nonostante sia stata proposta con un'iconografia pittorica che richiama il gusto manieristico cinquecentesco, con seno scoperto e delicata acconciatura di capelli biondo-castano, Caterina, santa paleocristiana e bizantina, viene omologata alle sante mistiche della Controriforma.
La correlazione Corenzio-pala d'altare del Martirio di S. Caterina è dato da un unico documento e cioè dall'«Inventario de' Suppellettili e Descritione di Alcuni Beni dell'Edificio, della Chiesa e Monastero di S. Caterina», redatto nel 1700 sotto l'abatessato di D. Hippolita Matthei.
In esso si legge che la chiesa, oltre ad essere dotata di arredi pregiati, presenta “lo quadro co figure di S. Catherina, denotante il suo martirio di mano del famosissimo Belisario pittore, sopra l'altare maggiore”.
Belisario Corenzio, in effetti, ebbe bottega in Teano dal 1586 al 1595, come attestano sia polizze di pagamento, per lavori svolti nella Cappella della Concezione, sita nel Duomo di Teano e commissionati da Giovan Maria d'Angelo sia per contratti stipulati con discepoli ed inservienti. Inoltre la presenza del Corenzio in Teano è pienamente giustificata dagli stretti rapporti e contatti che il frescante ebbe con la famiglia nobile teanese dei Galluccio.
Rapporti anche di committenza allorquando affrescò la cappella dei Galluccio, con ciclo pittorico dedicato al martirio degli Apostoli, nella cattedrale di Lucera ed il seggio del “Nido” a Napoli dove il ramo teanese dei Galluccio godeva “di nobiltà”. I dati archivistici pongono quindi il Corenzio in Teano alla fine del '500, ma il senso del colore, la varietà dei personaggi, le figure ben disegnate e l'ordine ipotattico della composizione, pongono questo martirio nei cicli seicenteschi dell'artista.
La pala d'altare che primeggia come modello assoluto nella chiesa, mostra un Corenzio che pur mantenendo un far di maniera fantastico espressivo e brioso, si avvicina ad una pittura di forte contenuto realistico e dal pressante intento devozionale.
Dal punto di vista strutturale, nella cona di S. Caterina, il Corenzio richiama la poetica pittorica di Fabrizio Santafede in cui il manierismo tosco-romano sulla scia di Michelangelo e Raffaello, si sposa con una pittura tonale dal colorismo lombardo-veneto.
A pose sofisticate ed un po' teatrali, nel martirio di S. Caterina si avverte un'attenzione nuova, posta da parte del Corenzio, verso un raccontare più piano e disteso, rivolto a cogliere minuziosi particolari, ad una gestualità tipica dei portati figurati del movimento riformato fiorentino.
Per cui si ritiene collocare l'opera del Martirio di S. Caterina negli stessi anni in cui il Santafede ed il Corenzio lavorarono al Monte di Pietà a Napoli: il primo dipingendo due pale d'altare quale la Deposizione e la Resurrezione (1607-08), Corenzio affrescando, a sua volta, il soffitto con la Passione di Cristo.
Il cantiere del Monte di Pietà doveva formare stimoli eccezionali per gli artisti che in quegli anni si confrontavano in quel luogo!
Ed ecco allora visibilissimi nel martirio di S. Caterina, trapassi luminosi, la levità del tocco, le tonalità cromatiche leggerissime, soprattutto sul manto della Santa, sfumate nei toni del rosa, che danno vita ad una pittura fluida ed originale, basata sull'immediatezza e sulla spontaneità di visione.
In questa pala dunque il fluido snodarsi del racconto, pieno di animazione e di effetti, di contrasti luminosi, si accompagna ad un pacato e tranquillo indagare, confinato nell'ambito del particolare, nelle pieghe di un realismo quotidiano, quasi umile.
Ed è forse in questo felice congiungersi del “fluido” del fuoco manieristico con la quotidianità più minuta, col “sermo humilis” della pittura riformata vi è molto del fascino del Corenzio. In questa particolare pittura il Corenzio spostò il suo raggio d'azione in una dimensione esclusivamente sacra.
Ma non deve essere trascurato il supporto della committenza privata che in questa pala d'altare volle far confluire sia la manifestazione celebrativa religiosa e propedeutica del centro monastico sia una forte autocelebrazione delle nobili famiglie che rimandano all'emblematico simbolo araldico.
Infatti il rimando araldico è dato dall'armoriale che si staglia nello spazio in basso, a sinistra della tavola pittorica.
In questo armoriale i committenti, avvalendosi della funzione squisitamente pubblica della pala, posta all'interno di questa chiesa, fornivano, attraverso i singoli campi semantici, espressi nello scudo, una rivisitazione atta a costruire e legittimare storie familiari, consolidarne una futura memoria ed illustrarne la valorizzazione del prestigio personale. Il tema araldico identifica due cognomi specifici di due nobili famiglie teanesi: i Barattucci e i Galluccio.
Ma che cosa designa la figura araldica rappresentante tre teste ottomane con turbante rosso, posta ad un quarto inferiore dell'armoriale?
Attraverso un attento studio araldico, l'armoriale non è altro che una complessa iconografia simbolica, non solo per indicare la committenza dell'icona, ma anche per diffondere e rilevare “gesta eroiche” delle famiglie suddette.
Quindi, l'apporto simbolico delle gesta, avrebbe avuto l'intento di dimostrare un continuo e sempre crescente consolidamento dell'ascesa sociale di queste famiglie, in ambito territoriale, avvenuta proprio nei primi decenni del XVII sec.
In effetti, nel Seicento, come si desume da testi epigrafici riportati nell'opera di Ottavio Boldoni, la famiglia Galluccio fu promotrice della ricostruzione del presbiterio cupolato dell'odierna cattedrale di Teano, lasciando maggior traccia di sé nei monumenti.
Il suo stemma è impresso sugli archi di trionfo di S. Maria la Nova, sul prospetto settentrionale del seminario, nel palazzo S. Agapito, sull'arco trionfale della succitata cattedrale e soprattutto stemma inciso nelle lastre pavimentali sepolcrali, come si sarebbe potuto notare, anche per i Barattucci, prima del ripristino pavimentale di questa chiesa.
Ma quali sono queste gesta ricordate dall'armoriale!
Ricordando dei frammenti di lastre marmoree che si conservano nella cripta della cattedrale e che riportano al monumento funebre di Antonio De Renzis, non più tardo del 1625, in cui si leggono motivi guerreschi e scimitarre ottomane, essendo stato, questo nobile teanese, tra quelli che espugnarono Patrasso, il mio studio si è concentrato sulla “cultura dell'antagonismo”, tra l'Islam e l'Occidente che, nel 1571, culminò con la battaglia di Lepanto.
Orbene, nella memoria condivisa del primo Seicento, la disfatta del pericolo turco era ancora viva e rappresentata con arredi iconografici-allegorici che riportano al drago, alla bestia, riportata “all'infedele”. Ma la cosa eccezionale è che, solo in Italia, l'iconografia della bestia assumerà tre teste umane corredate di turbante rosso, motivo impiegato contro gli ottomani in relazione proprio alla battaglia di Lepanto.
Mi potreste chiedere, a questo punto, ma quale rapporto intercorse tra i turchi ottomani, le famiglie nobili dei Barattucci e dei Galluccio ed il Martirio di S. Caterina.
La risposta è subito data.
I tre turchi presenti nella parte araldica-emblematica dell'armoriale indicano la partecipazione diretta di alcuni membri sia della famiglia Galluccio sia della famiglia Barattucci alla battaglia di Lepanto. Infatti, Flaminio e Fabrizio Galluccio con Francesco Barattucci seguirono il principe di Stigliano, Antonio Carafa, a Lepanto. Antonio Carafa, dunque, figlio di Luigi Carafa che divenne feudatario di Teano, nel 1546, avendo comprata la Città per 100.000 ducati e di quella Clarice Orsini che volle il Monastero di S. Caterina, ed il fior fiore della nobiltà teanese, seguirono le sorti della Lega Santa, alla quale aderirono i più forti stati cattolici della Cristianità controriformata, riportando “memorabil vittoria” sui turchi. Per cui l'analisi fin qui condotta sul significato emblematico dello stemma, offre una chiave interpretativa che permette di formulare una conclusione ed una datazione del Martirio che, così sintetizzo: prescindendo dai legami stretti che legavano il principe di Stigliano alle famiglie nobili citate, l'analisi, appunto, riporta l'apoteosi, ormai concretizzatasi con la vittoria sull'Islam, della cristianità, attraverso un'espressione artistica di un maturo e pregevole Corenzio, ascrivibile al primo quarto del '600, a tutto vantaggio di una nuova istituzione monastica benedettina, simbolo celebrativo del delicato momento storico controriformato.

Carmen Autieri
(da il Sidicino - Anno XII 2015 - n. 6 - Giugno)

foto di Mimmo Feola