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Le Janare - 3

 
L'articolo di C. Antuono pubblicato sul numero di aprile cui ha fatto seguito l'intervento di P. Giorgio nel numero di maggio, riceve ulteriori interessanti approfondimenti di E. D'Angelo
 

Ho letto con interesse, nel numero di aprile, l'articolo “Le janare” a firma di C. Antuono, trovandolo ricco di spunti per la riflessione e l'approfondimento tematico. Vorrei soffermarmi in modo particolare sull'etimologia del terrnine janara, nella convinzione che la filogenesi di una parola o di un'espressione (ossia il suo modo di nascere e di evolversi nell'uso comune) contenga in nuce anche il significato più genuino che ad essa deve essere attribuito: un filo di Arianna che, annodato al passato, può aiutarci a non brancolare senza direzione nel labirinto del presente che ci circonda.
Janara, si afferma nell'articolo, sarebbe da mettere in risonanza con il termine latino janus, “porta”, e alluderebbe alla capacità di attraversare le porte che a queste sgradite visitatrici notturne la tradizione orale attribuisce in modo pressoché unanime. L'interpretazione, senz'altro suggestiva, è di chiara origine popolare, e va ricondotta ad una vulgata che mira più a rafforzare l'aura sinistra e minacciosa che circonda queste creature, presunte adepte del demonio, che non a rendere conto di una verità storica probabilmente più prosaica, o comunque meno conforme alle aspettative del pubblico più suggestionabile ed ingenuo.
Nella versione che prediligo, le porte c'entrano solo alla lontana. E non sono le porte delle case infestate, ma quelle (reali e figurate) custodite dal dio italico Anus, poi divenuto Ianus sotto i Latini: è noto infatti, che, prima che si imponesse il Pantheon greco-romano, Ianus, il dio custode per antonomasia, faceva coppia fissa con Iana (poi Diana), sua sposa e gemella. A sua volta, Iana-Diana aveva una triplice identità, essendo venerata come Luna in cielo, Diana in terra ed Ecate (dea della magia nera e della notte) negli inferi. Nello stesso tempo, dunque, lana era dea dei boschi, degli animali e della caccia e dea della magia e degli affatturamenti (in latino fascinum), ll che spiegherebbe anche la sostanziale ambiguità etica delle attività tradizionalmente attribuite alle streghe: da guaritrici benevole a nefaste ammaliatrici, dìstruttrici delle messi, assassine di spose e di neonati. Rientra poi incidentalmente in gioco anche il riferimento etimologico alle “porte” se si tiene conto che sia Ianus che Diana presiedevano alle “porte solstiziali“, ossia ai due momenti dell'anno in cui il sole comincia a "nascere" e a “morire” modificando il suo corso giornaliero: la tradizione popolare lega queste ricorrenze proprio alle tregende stregonesche e ai raduni sabbatici, facendoli coincidere con le festività di Halloween-Ognissanti e con la notte di San Giovanni in apertura dell'estate.
Quando il Cristianesimo mise al bando gli antichi culti pagani, sacche di resistenza più o meno organizzate si generarono soprattutto nei pagus, nei villaggi rurali, dove meno pervasivo era il controllo delle autorità centrali. Furono soprattutto le donne ad animare questi focolai di "terrorismo magico", proprio in reazione alla morale repressiva e tendenzialmente ginofobica introdotta dal primo Cristianesimo.
Un discorso a parte merita il Sannio beneventano, dove è notoriamente accreditata una mole massiccia di testimonianze relative a presidi stregoneschi, e dove appare forse per la prima volta il termine ianara (nel dialetto locale, ghianara): innanzitutto, Diana godeva nel Pantheon sannita di una posizione di assoluta preminenza per le abilità marziali e venatorie che le venivano attribuite (i Sanniti erano essenzialmente un popolo di guerrieri, pastori e predatori); in seconda istanza, poi, è probabile che la tradizione magica più antica legata al culto di Diana si sia andata ad innestare, nel periodo longobardo, con quella “di importazione” legata alla venerazione della dea germanica Holda, che dimorava nei boschi ed aveva caratteristiche assai simili a quelle della divinità autoctona: è storia nota, infatti, che molte comunità barbariche insediate in ltalia aderirono con qualche riluttanza al Cristianesimo, tramandandosi in segreto i culti delle loro terre d'origine.
Inizialmente, quindi, le janare non erano altro che le depositarie segrete di culti religiosi messi al bando, ai quali si associavano convinzioni magiche di matrice antichissima ed un repertorio di competenze erboristiche e, diremmo oggi, “fitofarmacologiche”, che la superstizione del volgo attribuiva al commercio con il demonio. Ma l'alleanza con quest'ultimo fu posteriore e indotta quasi certamente dalla loro condizione di perseguitate politiche. Nella incivile campagna di repressione scatenata dalle autorità politiche ed ecclesiastiche, moltissime streghe o presunte tali, sostanzialmente innocue per la società, pagarono duramente per le intemperanze di poche facinorose. Oggi il fenomeno della stregoneria viene riletto soprattutto in chiave femministica ed ecologica, ed impazza già da alcuni decenni il movimento intemazionale della Wicca, tutto al femminile, che si richiama al paganesimo celtico e agli antichi rituali di adorazione della Terra. Comunità Wicca molto attive sono presenti anche in Italia, e navigando su lnternet ci si può imbattere in decine di siti che pubblicizzano le loro iniziative.
Un ultimo cenno, per concludere, va fatto al tema delle tecniche di difesa dalle janare: secondo un'interpretazione psicanalitica riportata nel Dizionario deIl'OccuIto edito da Mondatori, la scopa rovesciata verso l'alto sarebbe lun simbolo fallico positivo che si oppone all'energia femminile, negativa, introdotta in casa dalla strega. Più dimessamente, ma con maggior buon senso, Alfonso Burgio segnala nel suo Dizionario delle Superstizioni: “è diffusa un po' dovunque la credenza secondo cui per scacciare un ospite indesiderato basta poggiare contro il muro una scopa capovolta": una chiara allusione al gesto di minaccia della padrona di casa, senza alcuna necessità di ricorrere ad elucubrazioni tanto complicate! La scopa ha quindi la funzione tipica del talismano posto a difesa di un territorio consacrato (il perimetro domestico), un po' come le alabarde o le spade incrociate che spesso troviamo all'ingresso degli antichi manieri o dei castelli. Ma si tratta, nel caso delle streghe, di un talismano che agisce per modalità analogica, opponendo all'entità antagonista un oggetto che fa parte della sua stessa dotazione strumentale.
Più complesso è il discorso che concerne la “numerazione” dei fili della scopa o dei ceci, cui l'articolo di Antuono fa riferimento: De Martino segnala acutamente, nel suo Sud e Magia, che tutte le attività fondate sul logos e sull'esercizio delle facoltà razionali sono ritenute costituzionalmente avverse, nelle civiltà contadine, agli agenti magici negativi, figli del Caos, della notte e dell'indistinzione: da notare, infatti, che la preservazione di un ordine fisso ed immutabile nei cicli delle stagioni, delle semine e delle raccolte, è stata fin da tempi remotissimi la premura più costante di tutte le comunità a base rurale. Questo spiegherebbe, tra l'altro, la ripetitività ossessiva di certe filastrocche e di gran parte delle danze agresti a noi pervenute. Obbligare la janara a contare allude, simbolicamente, a ricondurre
l'emisfero destro del cervello (dove risiedono pulsioni inconsce e potenzialmente distruttive) sotto l'egida del sinistro, che presiede alle attività di calcolo e di organizzazione.
Ma un destino beffardo ha fatto si che una civiltà nuova, basata proprio sull'idolatria del calcolo e dell'organizzazione, abbia spazzato via in questa parte di mondo la plurimillenaria tradizione dei contadini d'Occidente. Ben poca cosa, a confronto, erano le insidie notturne arrecate da janare, folletti spiriti e coboldi: viene da chiedersi se i pochi contadini rimasti nelle nostre terre non stipulerebbero volentieri un annistizio con le temute creature della notte, facendo fronte comune con le armi del sortilegio e dell`immaginazione contro un nemico che non fa prigionieri, e che sta consegnando le nostre povere campagne ad un destino irreversibile di malinconia e di abbandono.

Emiliano D'Angelo
(da Il Sidicino - Anno V 2008 - n. 6 Giugno)