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C'era una volta... La corriera per la stazione

 

Si partiva da piazza Umberto. Era parcheggiata lì, sulla sinistra guardando verso il Corso Vittorio Emanuele, allineata al grosso gradino curvo che delimita la piazza a cavea.
Una grossa macchia di unto, perdita di nafta e olio meccanico sgorgati da ingranaggi logorati dal tempo e dalla fatica, ne indicava il punto preciso. E profumava di petrolio ed evocava viaggi, fughe da strette realtà, desideri di indipendenza e di futuri brillanti,... ma anche giornate di tranquilla serenità da trascorrere con i parenti lontani.
Proprio da lì partiva la "corriera"; si parlava ancora in italiano, perché gli inglesi fino a dieci anni prima erano stati i nostri nemici ed il duce non voleva che pronunciassimo parole inglesi, ma anche perché la televisione, così lontana nel futuro, non ci aveva ancora massificati nel gusto esterofilo.
Era piccola, conteneva sì e no dieci passeggeri seduti strettie scomodi, ma a me, bimbo di sei sette anni, appariva enorme e potente con quel suo grosso cofano, i fanali ancora esterni, le frecce a bacchetta, i finestrini piccoli, i sedili in legno. Era scomodo salirci a causa di quell'unico gradino troppo alto; e mio padre mi sollevava di peso, e poi aiutava mia madre, inguainata negli stretti abiti di quei primi anni cinquanta.
La corriera era sempre parcheggiata lì; abitavo a meno di trenta metri da lei; le passavo davanti tre o quattro volte al giorno, la sentivo quando rauca come un vecchio asmatico cominciava a far girare il suo stanco motore e la seguivo col pensiero mentre affrontava le rampe del Vescovado od evitava le buche del viale Ferrovia. Era la "corriera di Sardella", comunque una garanzia destinata ad entrare nella nostra povera storia locale.
E viaggiava traballando, mentre il cuore batteva nel timore di perdere il treno, al tempo stesso tramite ed oggetto della felicità di quel giorno di avventura.
Cercavo sempre di sedermi dietro il conducente, che armeggiava tra il grosso volante e le leve della ridotta, sbottando sovente per qualche marcia troppo restia ad entrare.
E dopo due chilometri ecco che mi appariva da lontano lei, la stazione ferroviaria: sulla destra il grosso serbatoio dell'acqua, a sinistra un cancello sempre uguale in tutte le stazioni d'Italia chiudeva l'accesso secondario. Insieme con noi, stretta in grossi pacchi di iuta, viaggiava la posta, sballottata dal fattorino che alla stazione la gettava senza tanti complimenti su un carrello di legno.
Già all'ingresso si era sopraffatti dall'inconfondibile odore del fumo del carbon fossile che alimentava le locomotive a vapore; il bigliettaio sedeva dietro uno sportello troppo alto: vedevo solo le ultime file di quel mobile portabiglietti che percorreva veloce con le sue agili dita fino a trovare il cartoncino ora bianco ora rosa dov'era stampigliato il nome della città di destinazione del viaggio.
E c'era il "vecchio poster già scarabbocchiato" che diceva "vieni in Tunisia".
Poi si usciva ai binari, belli, diritti, paralleli all'infinito e l'odore acre del fumo si faceva più intenso e si restava trepidanti in attesa del suono acuto e forte del campanello che annunciava imminente l'arrivo del treno.
Eccolo finalmente, indicato da un alto filo di fumo che percorreva i campi intorno diventando sempre più grande: si cominciava a sentire lo sbuffare della locomotiva, lo sferragliare dei vagoni, ed infine qualche fischio di richiamo. esce il ferroviere che deve sistemare (mi son sempre chiesto il perché) una bandiera rossa in un apposito buco sul marciapiedi, e dietro di lui, sfolgorante nella divisa col berretto rosso, paletta nella mano destra e fischietto in bocca, il capostazione.
Era un mito, il capostazione; era l'uomo che comandava i treni che docili gli obbedivano e non si muovevano di un centimetro se lui, alzando la paletta, non fisciava forte.
... e vai! La vaporiera cominciava a sbuffare forte, sempre più forte, mentre dai finestrini gli alberi cominciavano a muoversi ed i pali del telegrafo a rincorrersi ed i fili tesi tra loro ad abbassarsi e ad alzarsi in danza leggiadra, scandita dal ritmo affascinante delle ruote che passavano sugli interstizi tra un pezzo di binario e l'altro: tum-tum, tum-tum...

*

Mi è capitato di tornare ala stazione qualche giorno fa: pesanti grate di ferro sbarrano tutte le aperture di quella che era la sede degli uffici e del personale di servizio. Si entra da un lato e si esce subito sui binari, l'edificio potrebbe non esserci. Ho cercato invano il bigliettaio; i biglietti, mi dicono, si vendono dal tabaccaio. Un'aria di desolazione pervade tutto ed accentua il senso di profonda solitudine. Nella mobile trasparenza dell'aria calda che s'alza dai binari mi pare di vedersi materializzare, in lontananza, la sagoma di Gary Cooper quando una voce tanto stridula quanto fastidiosa all'improvviso mi invita "a far attenzione al primo binario" e a "non superare la striscia gialla". Nella solitudine totale quella voce giunge come dallo spazio e ripete il suo messaggio più volte. Il tempo di girarsi e mi ritrovo accanto senza averlo né sentito né visto, il treno, moderno, elettrificato, magari comodo, ma impiastricciato nei vagoni da quei surreali disegni da murales che, chissà perché, tanto piacciono ai giovani e sovente anche a qualche genitore.
Il treno lo prenderò a Vairano, dove ancora c'è un uomo con una divisa ed un berretto rosso che risponde al tuo saluto ed alle tue domande, anche se ti invita ad "obliterare" il biglietto.
Ignorante come un tricheco non comprendo cosa debba fare. Pazienza consulterò un vocabolario della lingua italiana. Anzi, fatelo anche voi!

Claudio Gliottone
(da Il Sidicino - Anno I 2004 - n. 2 Febbraio)