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Perché muore l'anima di un popolo?

 

Ogni volta che visito il nostro patrimonio archeologico, sia al museo che nelle varie mostre, rivedo la storia del nostro popolo.
Rivedo quelle figure non più come fredde testimonianze d'un epoca lontana, ma, come il fedele ritratto dei miei progenitori, e le sento vicine, come sento dipanarsi in un attimo gli oltre duemila e cinquecento anni che dalla loro esistenza hanno condotto alla nostra.
Mi pare addirittura di riconoscerli tutti quei personaggi, di rivedere in ognuno di loro le sembianze attuali di amici e conoscenti, e di avvertirne il pensiero, i problemi, le aspettative.
Sento rivivere e pulsare una entità precisa, un popolo fiero e produttivo, orgoglioso e consapevole di sé: quello di mille e mille anni fa.
Era il popolo che creava eccelsi manufatti di creta, che erigeva templi e santuari, che lottava alla pari con la nascente potenza romana per difendere la propria indipendenza, che seppe poi contrattare con onore e dignità, ricavandone rispetto ed ammirazione.
Fino a raggiungere, in epoca augustea, il suo massimo sviluppo urbanistico e splendore, arrivando a contare oltre cinquantamila rappresentanti.
Poi più nulla: da “faber fortunae suae” il popolo sidicino, iniziando a trasformarsi lentamente in popolo teanese, divenne sempre più oggetto, anche della sua storia, fino a divenire casuale fortuito spettatore di avvenimenti, sino all'ultimo suggello della Italia unita.
Nasce allora il desiderio di un approfondimento, di una doverosa analisi comparativa su quanto può restare in un popolo delle sue radici, sulla sua struttura sociale e comportamentale attuale e pregressa, perché qualcosa deve rimanere. E forse è rimasta, e sarà pure qualcosa di buono, ma toccherà ad una generale disamina sociologica, condotta da esperti del settore, ai quali mi piace provocatoriamente affidare l'argomento, scoprirla ed indicarla.
Ma questo non per mera curiosità storica, non servirebbe a nulla; ma per presuntuosa volontà di riscatto, per desiderio di auspicabile ripresa, perché nel futuro ci si prospetti un cambiamento d'intenti e di comportamenti che solo può portare ad una rinascita sociale del paese.
Come una seduta dallo psicanalista: trovare la causa di un comportamento significa attuare la sua automatica rimozione.
Perché tanto poco ci è rimasto delle nostre radici? Perché abbiamo perso nel tempo l'orgoglio di un popolo colto e fattivo e siamo diventati disuniti e improduttivi, attenti a tutto, meno che al nostro progresso sociale?
Allora sdraiamoci sul divano, socchiudiamo gli occhi, ed iniziamo la nostra seduta di psicoanalisi.
Il declino comincia con l'arrivo dei Longobardi e della Chiesa, e Teano diventa da allora perenne possedimento di qualcuno, fino all'unità d'Italia.
Non che altre etnie siano rimaste indipendenti, sia chiaro, ma tutte, i Sanniti, gli Irpini, i Caleni, hanno conservato nel tempo, ed ancora oggi ne mostrano visibili segni, la loro orgogliosa appartenenza, alternando sprazzi di grande civiltà locale a periodi di apparente quiescenza.
Giusto per fare qualche esempio, dal Sannio proviene un grande scienziato, Antonio Iavarone, docente alla Columbia University di New York, assurto da pochi giorni agli onori delle cronache scientifiche per una importante scoperta di biologia molecolare che potrebbe arginare il cancro cerebrale; dall' Irpinia è venuta la classe dirigente che ha governato l'Italia in tantissimi settori negli ultimi anni del finire del secolo; la vecchia Cales ha avuto negli ultimi tempi un notevolissimo sviluppo economico…e noi?
Cosa ci ha più contraddistinto dall'epoca dei Sidicini ad oggi?
Dove è finito quell'amalgama sociale e di pensiero che forgia una etnia e resta nei suoi geni per ripresentarsi prima o poi in tutta la sua essenza? Perché non ci è rimasto nulla di quella grande operosità di oltre duemila anni fa che ci portava a creare splendidi manufatti, a coalizzarci in un sol essere per opporci a quanti volevano conquistarci e sfruttarci, a sfruttare noi stessi, egregiamente e con grande ospitalità, la salubrità dei luoghi, ricchi di acque termali e di buon clima?
Perché oggi non riusciamo a dar vita alla più banale imprenditoria, perché oggi non sappiamo eleggere da soli, e scegliendolo noi e solo noi, un qualsivoglia rappresentante politico o amministrativo in qualsivoglia istituzione politica o amministrativa; perché oggi stentiamo ad essere ospitali nell'accogliere possibili flussi turistici; perché restiamo banalmente provinciali allestendo due Pro-Loco, non dando spazio ed opportunità a chi ha voglia di fare, ma non la pensa come noi; perché non siamo capaci di tenerci strette le poche cose che abbiamo, ma ce ne lasciamo depredare con spaventosa costanza, giorno dopo giorno; perché non riusciamo ad eccellere in niente?
E non c'è da scomodare grandi esegesi storiche: non a caso ho citato tre etnie meridionali, vicine a noi, che hanno vissuto gli stessi travagli storici. Ma in loro è rimasta la fierezza di tempi antichi, in noi manco l'ombra. Perché?
Mi piace azzardare qualche ipotesi. Vuoi vedere che siamo rimasti vittime della bontà ambientale che ha favorito l'innesto di realtà familiari di diversa provenienza con progressiva diluizione fino alla scomparsa di ogni autoctonia?
Siamo stati tanto sfortunati da non saperne cogliere il meglio per arricchirci socialmente ed ideologicamente, ma, al contrario, ci siamo lasciati depredare anche delle nostre coscienze?
In fondo è quello che continua ad accadere: quante famiglie provenienti da altre realtà sociali hanno case, aziende, appezzamenti di terreno nel nostro territorio e noi ne ignoriamo anche l'esistenza, precludendoci ogni possibilità di interscambio? Continuiamo a dare senza saper chiedere, senza ottenere nulla in cambio, perché nulla ci danno, sovente producendo reddito i cui ricavati vengono investiti in altri territori: una vera depredazione della zona.
Vorremmo augurarci che le cose possano cambiare, che possa risvegliarsi l'orgoglio sopito, che un poco alla volta, complici occasioni d'arte e di arricchimento culturale, l'antico popolo sidicino torni a vivere nel moderno popolo teanese.
Il cammino sarà lungo; lo psicanalista dovrà lavorare molto.
Ma continuare a darsi per vinti significherebbe respingere ogni favorevole pulsione, ogni potenziale resipiscenza, ogni aspettativa di miglioramento
Per questo plaudo a quanti ancora combattono in attesa di un “rinascimento” che deve essere prima e soprattutto degli spiriti, perché senz'anima nulla durerà il tempo necessario a dar frutti fecondi.

Claudio Gliottone
(da Il Sidicino - Anno VI 2009 - n. 11 Novembre)