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La essenza del progresso

 

Non sono un economista o un giuslavorista, e neppure sono un Don Ferrante che se ne andò a letto giurando che la peste non esisteva, che era solo frutto di chissà quale congiunzione astrale, e ne morì; e manco sono un carducciano asino bigio che, continuando “a rosicchiare un cardo rosso e turchino”, non degnò “d'un guardo” la vaporiera che nel piano “ansimando fuggìa”!
Ma il recente episodio, avvenuto in Arizona, di una macchina senza guidatore che investe ed ammazza un pedone mi spaventa parecchio; e mi interrogo sugli obiettivi e sulle infinite sfaccettature di quello che a torto o ragione chiamano “progresso” confondendolo spesso, nella di lui esaltazione, con qualcosa che, in fondo in fondo, di progresso ha ben poco. Perché quando se ne parla esclusivamente da un punto di vista tecnologico, spogliandolo di ogni implicazione etica e finalistica, non si rende un buon servizio all'umanità. E da svariate angolazioni.
La essenza del progresso dovrebbe consistere nel migliorare la quantità e la qualità della vita di un uomo: e su questo non ci piove. Non v'è paragone minimo che possa reggere la differenza, per quantità e qualità, della vita che ogni uomo, anche il più diseredato al mondo, vive oggi da quella che gli era consentita all'età della pietra o appena cento anni fa. Soffermarsi sugli infiniti dettagli sarebbe superfluo, soprattutto perché tale differenza è nata da un imprescindibile connubio tre etica e tecnica. È quando questo connubio si spezza, nelle programmate finalità o, peggio, nelle degenerazioni di esse, allora c'è da avere tanta paura.
Oggi entriamo in autostrada col telepass, acquistiamo biglietti aerei e ferroviari on-line, ordiniamo allo stesso modo le cose più strane e quelle più banali che ci vengono consegnate a casa dopo tre giorni, facciamo le nostre operazioni bancarie standocene sdraiati davanti al computer, leggiamo persino i giornali elettronicamente, senza inebriarci più dell'odore d'inchiostro che era propedeutico ad ogni sfogliata di un quotidiano. Ed il contatto “umano”, quello che ci faceva salutare e sorridere al casellante autostradale, quello che ci faceva contrattare con il negoziante il prezzo dio un oggetto, quello che ci faceva scambiare quattro chiacchiere con l'edicolante sul fatto del giorno, dove è finito? Chi proverà più quell'empatia che nasceva sottopelle con il nostro occasionale interlocutore al pensiero del lavoro da lui svolto? Chi proverà più quella tenerezza per il casellante che restava chiuso nel suo angusto casotto mentre noi gli sfilavamo davanti con l'auto diretti magari al mare o in vacanza, o per il bancario che lasciavamo dietro la scrivania dopo aver fatto un prelievo di soldi per goderci quella medesima vacanza?
Sembrerebbero sciocchezze, ma rappresentavano un contatto continuo con l'Umanità, quella con la lettera maiuscola! Oggi potremmo vivere per anni ed anni chiusi tra quattro mura, da isolati individui sempre più spiritualmente poveri, ma grandemente “progrediti”.
Le nuove automobili si guideranno da sole; per intanto han cominciato ad ammazzare da sole i primi utenti della strada; e non ci sarà nessuno che ne soffra e se ne possa dispiacere, perché a procurare quell'incidente non è stato un uomo, ma un automatismo difettoso che ne ha preso il posto. È questo il progresso: deresponsabilizzare l'uomo nei confronti del proprio simile?
Non parleremo più con l'edicolante, è vero; ma in compenso tramite Internet parliamo con il mondo intero, il più delle volte per non dire niente. Ma qualcuno più in gamba saprà usare quel mezzo per accaparrarsi la mente di un altro uomo che, ingenuo e senza le difese che provengono dalla vista, dall'udito, dalla analisi dell'aspetto e dei modi di esporre dell'altra persona, perché attraverso il computer queste cose non si possono usare, diventerà manovrabile certamente più di una automobile senza guidatore. Ed i recenti fatti di cronaca sono una ampia dimostrazione di come la degenerazione del progresso, con l'uso indiscriminato dei suoi mezzi, possa consentire di manovrare intere popolazioni.
Questo perché i più recenti frutti della tecnologia non sono finalizzati: i telefonini, i tablet, gli ipad e via discorrendo consentono una infinità di funzioni che forse neppure i loro costruttori riuscivano ad immaginare. Per mancanza di etica!
L'edicolante ha perso il suo primigenio lavoro; il commerciante al minuto vede fortemente ridotta la sua attività; di impiegati di banca, laddove ne servivano otto, ne bastano due. A quale altro lavoro si dedicheranno? Certamente il mondo del lavoro si aggiorna e si adatta alle nuove esigenze, e l'edicolante, probabilmente, si impiegherà nella industria che costruisce i telepass, o il bancario in quella che costruisce i programmi informatici, ma già ci sarà qualche problema in più per il commerciante. Senza dire che il mercato della tecnica prima o poi si esaurisce: un telepass che dura per dieci anni vedrà limitarsi le sue vendite col tempo e con il suo acquisto da parte di tutti, e, soprattutto, non andrà mai in pensione lasciando posto ad altri! Si inventerò qualcos'altro, diranno i più ottimisti, ignari del principio di entropia.

Claudio Gliottone
(da Il Sidicino - Anno XV 2018 - n. 3 Marzo)