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Ancora a proposito di F. De Mura e del Dragone di Teano

 

La nicchia centrale del Cappellone di San Paride uno straordinario ambiente barocco che presenta purtroppo vistosi segni di incuria ospita la tela con la leggenda del Patrono di Teano, dipinta da Francesco De Mura tra il 1720 ed il 1730.
La pittura barocca predilige l'azione, l'attimo in cui la storia si compie. L'artista vuole fissare il movimento, il divenire della vita, il vorticoso svolgersi delle vicende umane e naturali, fermando sulla tela il lampo di luce che trasforma la precarietà di una vicenda effimera nella verità assoluta della storia.
Nella tela del De Mura i tre protagonisti principali - San Paride, la giovane Tranquillina e suo padre Sempronio, preside della città sono colti in quel momento di alta tensione drammatica che segna la sconfitta del drago: i tre si muovono, in una gestualità agitata che sembra animare perfino i panneggi, all'interno di una azione concitata che si sviluppa in tutti i piani della rappresentazione. Ed è singolare che De Mura scelga, per rappresentare il moto delle tre figure principali, di far avanzare le loro ginocchia lungo i tre assi intorno ai quali è costruita la scena.
ln primo piano, in stridente contrasto con l'agitazione della scena, è dipinta una stupenda natura morta con cucchiaio. Le dimensioni gigantesche di quest'ultimo fanno pensare alla insaziabile voracità del dragone che terrorizzava la popolazione della città.
La scena rappresentata si rifà, anche se con qualche sostanziale incongruenza, alla leggenda di San Paride raccontata, sul finire del XVI secolo, nella “Collezione degli Offici dei cinque Protettori di Teano” (San Paride, Sant'Amasio, Sant'Urbano, San Terenziano e Santa Reparata).
D'altra parte, la leggenda pubblicata nella "Collezione" del 1583 riprendeva fedelmente il racconto della vita di San Paride già riportata in un "Leggendario Semestrale" che si trovava nell'Archivio delle Monache di San Giovanni di Capua e nel quale erano trascritte 12 lezioni sulla vita di San Paride risalenti al 1034. Va sottolineata questa presenza di scritti su San Paride in conventi di altre città, a dimostrazione della diffusione che il culto del Santo ebbe nel medioevo ben oltre i confini di Teano.
ll Leggendario medievale racconta di un Dragone che viveva appiattato presso una fonte suburbana ed appestava l'aria e seminava desolazione ogni volta che appariva. Una vergine doveva portare giornalmente davanti alla sua grotta una mensa ricolma di vivande prelibate sperando che il pasto risultasse gradito alla bestia, poiché, in caso contrario, sarebbe stata lei stessa ad essere esposta alla voracità del Dragone.
ll giomo in cui toccò alla vergine Tranquillina, figlia del preside della città, avvicinarsi, accompagnata da un coro di donzelle, all'antro del serpente per porgergli il cibo alla bocca, la divina ispirazione volle che un giovane ateniese giungesse sull'imbocco dell'antro per porre fine al supplizio della giovane. L'imposizione del suo bastone da viaggio sulla testa del Dragone ebbe l'effetto di assopire la bestia. ll Santo privò il Dragone della sua rabbia, e, dopo averlo legato col suo cingolo, lo
cacciò nel fondo del Savone ordinandogli di perdersi nel mare e di non comparire più in quei luoghi.
Narra la stessa leggenda che i Sidicini si mostrarono tutt'altro che riconoscenti al loro liberatore: il greco fu incatenato e condannato alle belve feroci per aver profanato il patrio culto. Ma Paride usci illeso da questa prova ed allora il Preside e tutta la città si convertirono al cristianesimo. Chiamato a Roma da San Silvestro Papa, Paride ritornò a Teano insignito dell'ordine episcopale per reggere la sua chiesa fine al 5 agosto del 346, giorno della sua morte.
Certamente De Mura conosceva le precedenti rappresentazioni di combattimenti tra santi e draghi dipinte dai grandi maestri del passato, da Paolo Uccello a Vittore Carpaccio. Una consolidata tradizione iconografica voleva che il drago avesse le sembianze dei mostri descritti nei bestiari medievali. Animali vomitati da paludi o caveme sotterranee, che condividevano la natura del serpente e dell'uccello, fomiti di ali taglienti, dotati di una cresta che correva su tutta la schiena, temibili per i violenti colpi che sapevano dare con la loro coda a freccia. Tali erano i draghi con i quali avevano ingaggiato cruenti scontri i tanti santi che avevano liberato le città da queste mitiche creature: San Giorgio, San Silvestro e San Gregorio a Roma, Santa Marta a Tarascona, San Siro a Genova, San Leucio ad Atessa, San Gottardo nel Trentino e perfino la vergine Maria a Terravecchia in Calabria.
ll drago della tela di San Paride non appartiene a questa tradizione, è più simile ad un grosso rettile fornito di appuntite orecchie luciferine, di natura decisamente ctonia e terrestre.
Se questo avviene è perché il De Mura, come altri pittori, si discosta da quel filone iconografico che, prendendo le mosse dall'Apocalisse e passando per l'arte romanica ed orientale, dà vita ad una ibrida
creatura che, in aperta violazione delle delimitazioni aristoteliche, riassume mostruosamente le forme degli animali terrestri, marini ed aerei.
Nella rappresentazione dei Dragoni esiste, invece, fin dal medioevo un altro percorso culturale che va a riallacciarsi direttamente alla cultura romana ed ai culti idolatrici che si erano diffusi, specialmente nelle aree meridionali, nel momento in cui la potenza imperiale si avviava al declino.
È noto che sul finire dell'impero romano si diffonde nelle masse una
insensatezza idolatrica che eleva ad oggetto di adorazione le cose più insulse della vita degli uomini: si adora il dio Porro, si adora la dea Cipolla. Quasi ogni animale diventa oggetto di venerazione, e in questo ambito un culto particolare viene riservato ai rettili ed ai serpenti.
ll culto dei serpenti, d'altra parte, viene da molto lontano ed è rimasto vivo, parallelamente al culto per le divinità maggiori, per tutto il tempo in cui è durata la storia di Roma.
Già Daniele parla di un enorme serpente che era adorato in Babilonia e che egli avrebbe ucciso con un bolo di pece, di grasso e di peli.
L'imperatore Adriano innalza ad Atene un tempio dedicato a Giove Olimpico e vi pone, a guisa di nume
tutelare, un grosso serpente trasportato dall'India.
Ai serpenti veniva assegnata una vista acutissima e, trasportando questa virtù dal piano fisico a quello spirituale, si riteneva che essi potessero "vedere" il futuro. Luciano racconta nello Pseudomante che nelle terre della lonia, della Galazia e della Cilicia il culto più diffuso era quello del serpente e che a questi veniva attribuito il potere di rendere anche oracoli.
L'appartenenza dei serpenti alle profondità della terra Ii faceva considerare esseri carichi di una saggezza profonda, in quanto partecipi dei segreti e dei tesori di un mondo accessibile solo a loro.
Un culto particolare era indirizzato dal popolo a quei serpenti grandi ed innocui - scriveva Plinio "Drago non habet venena" - che eleggevano dimora fissa in qualche anfratto nei pressi delle case. Si formava negli abitanti del posto la convinzione che i Geni Tutelari dei luoghi si nascondessero sotto le loro spoglie.
Nel Libro V dell'Eneide Virgilio parla di un grosso serpente che si aggirava liberamente tra le tazze e le vivande del sacrificio che Enea stava celebrando sulla tomba di Anchise, accolto dai presenti come il Genio del Luogo se non dello stesso padre.
Avveniva spesso nel mondo romano che i serpenti non velenosi venissero addomesticati e fosse loro permesso di girare liberi per casa e di dìstendersi sotto la mensa come amabili cagnolini (catellorum more) in attesa degli avanzi del pranzo.
Ancora Plinio racconta che il giovane romano Toante fu salvato da sgherri che lo avevano aggredito grazie all'intervento di un serpente che egli aveva nutrito.
Col progressivo affermarsi di una simile cultura che vedeva nel serpente un essere, saggio, conoscitore del cammino iniziatico che porta alle verità nascoste sottoterra e dei sentieri che conducono all'aldilà, si istituzionalizza nel tempo un vero e proprio culto del dio Serpente, con templi ad essi dedicati e con sacerdotesse che si votano alla sua adorazione.
È molto importante quanto scrive Eliano nel “De Natura animalium" a proposito di un culto presente a Lavinio: "ln Lavinio vi è un bosco grande e ombroso e dappresso ad esso un Tempio dedicato a Giunone Argolide. Nel mezzo del bosco vi e una specie di nascondiglio profondo che è la tana del Dragone; in questo bosco, in certi tali stabiliti giorni si introducono le Vergini Sacerdotesse cogli occhi bendati e portano nelle mani una specie di fiadone. Un divino istinto le conduce direttamente al covile e bel bello, a passo a passo, vanno innanzi senza intoppi, come se camminassero ad occhi aperti. Se in questa circostanza le oblatrici sono effettivamente vergini, il Dragone accetta quel cibo, come puro. Ma se non lo sono, non lo tocca nemmeno dando così ad intendere che quelle sono corrotte. In tal caso, dopo aver purificato i luoghi, si istituisce un giudizio, si citano le vergini e si esaminano. E quella di cui consterà esser violata la integrità, vien punita in confonnità alle leggi".
Un analogo rito si svolge a Lanuvio più o meno con le stesse modalità. Properzio, che ne dà una dettagliata descrizione nelle Elegie, aggiunge un nuovo elemento che chiarisce meglio il rapporto che le civiltà contadine istituiscono con questo culto. Dice il poeta che annualmente un annoso serpente chiedeva con sibili da mangiare, e che le fanciulle si accostavano all'antro per offrirgli da mangiare dalle loro mani. Se erano caste il serpente accettava le loro offerte e gli agricoltori esultavano perché l'anno sarebbe stato fertile.
A ben guardare. sono tanti gli elementi che accomunano il Dragone di Lavinio ed il Dragone di Teano, non ultimo l'esistenza in entrambi i casi, nei pressi del nascondiglio del rettile, di templi dedicati alla dea Giunone. Cosi come appare evidente (altro che giovani donne divorate dal serpente) che nelle due città era presente un Collegio di vergini Vestali che attendevano al ministero di nutrire il serpente con copiose vivande.
Ed eccoci di nuovo alla tela del Cappellone di San Paride nella quale sembra di riscontrare, perché no, un preciso lavoro filologico sul culto del Dragone.
Come De Mura racconta nel suo dipinto, nessun titanico duello si è consumato tra Paride ed un mostruoso Dragone. A dilferenza di altri episodi analoghi, Paride non uccide, non conficca la lancia nell'occhio del Dragone, non atterra il mostro in una pozza di sangue. La missione del giovane ateniese è consistita nella liberazione della città dall'ambiguo culto del serpente, matemo e protettivo da una parte, oscuro e terribile dall'altro; un culto che teneva sospesi gli uomini tra il “mondo di sopra” ed il "mondo di sotto", in un luogo spirituale caotico dominato dal disordine e dall'indefinito. ll pittore rappresenta l'eroe cristiano nel mentre realizza la separazione dei due regni con la cacciata del serpente che li teneva congiunti. L'uomo nuovo che esce dal gesto dell'eroe è l'uomo che ha trionfato sulle abiette pulsioni che salgono dalle profondità dell'esistenza; è l'uomo che conosce il potere di ordinare, razionalizzare, domare il caos perché la vita si sviluppi articolatamente.

Giuseppe Lacetera
(da Il Sidicino - Anno I 2004 - n. 5 Maggio)