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Mestieri di un tempo

 

Per conoscere meglio i caratteri e le identità di comunità come la nostra (Pietramelara) è necessario ricorrere a particolari ritenuti (a torto) secondari, quali ad esempio le arti e i mestieri che un tempo vi si esercitavano e che l’economia, e l’evolversi del costume hanno cancellato.
Aprivano bottega per le vie del centro storico, e lavoravano dall’alba al tramonto con una breve pausa per il pranzo, tutto sommato incuranti dell’inquinamento che potevano produrre o dei rumori. Erano questi ultimi, insieme agli odori (o puzze) a caratterizzare le botteghe. Le si poteva riconoscere anche da lontano, quando erano ancora celate alla vista: era caratteristico pervenire da quella del maniscalco, o ferracavalli, ad esempio, il ritmato battere del pesante martello sull’incudine, per foggiare il ferro ancora rosso appena tirato fuori dalla forgia. Quando il cavallo o l’asino veniva ferrato, per pareggiare lo zoccolo, il ferro doveva essere ancora incandescente e così l’unghia bruciata produceva un odore acre ed intenso, difficilmente sopportabile.
L’attività del carrese, che costruiva carretti per l’agricoltura, e carrozzini destinati a classi sociali più altolocate; la parte più complessa da realizzare erano le ruote: in legno, perfettamente circolari e cerchiate in ferro, al loro centro vi era un mozzo sporgente in legno molto duro, generalmente di olmo o “arulu”, per dirla alla pietramelarese; la durezza del legno era necessaria, dovendo tale mozzo, detto “miulu”, reggere lo sforzo e il peso dell’intero carro e del suo carico. La caratteristica durezza del miulu, traslata nel linguaggio plastico ed efficace della gente rurale, è divenuta proverbiale, e ha finito per identificare una persona particolarmente testarda, dalla testa molto dura quindi, come “na cap’ e miulu”.
Le tessitrici di tele di canapa lavoravano in locali angusti, a volte malsani e privi di luce, il telaio era una macchina lignea, rudimentale ma, allo stesso tempo, imponente e complessa, al punto da occupare gran parte del locale. Il rumore in tal caso era altrettanto caratteristico, ma sicuramente meno avvertibile per la minore intensità, e le tessitrici potevano anche cantare, lavorando. A Pietramelara ce n’erano diverse, sia nelle strade del borgo che in qualche via più periferica, penso siano del tutto scomparse verso la metà degli anni 60.
Gli stagnari, oggi detti lattonieri, si dedicavano a produrre canali di gronda in lamiera, o altri oggetti che potevano essere ottenuti da tale materiale, tipo stari per l’olio, o secchi e recipienti vari; da non confondere con i ramari, dediti a battere il rame per ottenere caldai e pentole; la tossicità del rame imponeva che la parte interna di questi manufatti, quella a contatto con gli alimenti, venisse ricoperta di stagno, a caldo. I fabbri esistevano ed esistono ancora in paese, tuttavia quelli di un tempo non disponevano di saldatrici ne a arco ne a cannello, per cui tutto il lavoro, per produrre aratri o altri attrezzi agricoli, zappe e vanghe, veniva svolto alla forgia, cercando di plasmare il ferro incandescente. Un mestiere, oggi scomparso, era il seggiaru o ‘mpagliasegge, il modello di sedia prodotto quasi sempre lo stesso, in due o tre misure di grandezza (segge e siggiulelle) con intelaiatura in castagno, per i piedini e lo schienale, e paglia ritorta per la seduta.
Ce ne sarebbero altri ancora di cui parlare: ammolaforbici (arrotini), scarpari, zappatori, capère (pettinatrici), seringare (facevano iniezioni a domicilio) ecc. mestieri, attitudini, professionalità ormai perdute, sinonimi e simboli di una civiltà rurale ormai tramontata.

Francesco Sabatino
(da Il Sidicino - Anno XX 2023 - n. 2 Febbraio)