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Wellerismi
Vorremmo dare inizio a questa nuova rubrica con un gruppo di c.d. “wellerismi” che sono delle frasi sentenziose, per lo più di tono scherzoso, che si attribuiscono a un personaggio reale o immaginario. L'etimo del termine è dall'ingl. Wellerism, derivato dal nome di S. Weller, faceto servitore di Pickwich nel romanzo “Pickwick Papers” (1837) dello scrittore inglese C. Dickens (1812-1870).
Chiarito il significato del termine che indica una categoria di detti, aggiungiamo che una caratteristica del wellerismo, sul piano strutturale, è costituita dalla forma verbale “ricette”, passato remoto del verbo dire (dìcere), cioè: disse, seguito dal nome del personaggio che quella frase pronunciò.
Di questa categoria di detti, ne abbiamo raccolto sei: questi incominciano tutti con “Ricette”, tranne il primo nel quale in primo piano vien posta la frase. Da notare ancora che nel tradizionale rapporto “scolastico” prima il soggetto, poi il predicato, qui il rapporto s'inverte.
Un'ultima considerazione introduttiva: i sei wellerismi presentano strutture strofiche molto varie: distici, terzine e quartine; varia risulta anche la lunghezza dei versi: si va da quinari a endecasillabi.
Ed ecco il primo dei wellerismi da noi raccolti.

«Â faccia r'a fibbia!»
Ricette 'on Fabbio.
Traduzione:
«Alla faccia della fibbia»
disse Don Fabio.
Sul piano metrico, notiamo un distico formato da un senario e un quinario; entrambi però presentano due accenti tonici. Da notare poi la forte consonanza tra “fibbia” e “Fabio” (pronunciato con raddoppiamento della consonante B).
Sul piano letterale, “Alla faccia!” è una esclamazione volgare di origine meridionale, di carattere dispregiativo (es. “alla faccia tua! = a tuo dispetto). Riteniamo che tra “faccia” e “fibbia” non ci sia nessun rapporto logico, a meno che non si voglia pensare ad una fibbia molto vistosa sulla pancia di un corpulento Don Fabio. In realtà la presenza della “fibbia” ha la funzione di preannunciare il nome di Don Fabio, per formare una bella consonanza!
L'esclamazione vuol esprimere un senso di sorpresa e meraviglia e insieme di compiacimento, di fronte a qualcosa di grosso e di non normale.

Ricette 'u scarrafone:
«Pô chiovere gnostro,
cchiù niro che songo
nun pozzo addeventà».
Traduzione:
Disse lo scarafaggio:
«Può piovere inchiostro,
più nero di quel che sono
non posso diventare».
Questo wellerismo si usa quando, nel male, nel novero delle disgrazie, si è giunti al limite.
A proposito di “scarrafone”, vogliamo ricordare l'altro detto “Ogni scarrafone è bello â mamma soja” (ogni scarafaggio è bello alla mamma sua); un figlio per quanto brutto e deforme possa essere, per la sua mamma è sempre bello!
Il termine scarafaggio deriva dal lat. “scarafaius”, che è dal lat. classico “scarabaeus”.
Sul piano formale, si può osservare che la “quartina” (anche nei detti il popolo si esprime in “versi” o almeno con certi ritmi e cadenze) è costituita da due senari che formano il corpo, mentre il verso che apre la strofa e quello di chiusura sono settenari (quest'ultimo è tronco, come suole spesso accadere a chiusura di una quartina).
Ancora una osservazione sul secondo verso («Pô chiovere gnostro»): nella parola “gnostro” da inchiostro si verifica il fenomeno della afèresi, cioè la caduta della sillaba iniziale (in-), che poi dà luogo, in questo caso, anche alla trasformazione della seconda (-chio- diventa gno-).

Ricette 'u fesso (che fesso nun era):
«'U fesso è meglio r'u Sìnnaco;
pecché 'u Sìnnaco rura quatt'anni,
'u fesso pe' tutta 'a vita».
Traduzione:
Disse il fesso (che fesso non era):
«Il fesso è migliore del Sindaco,
perché il Sindaco dura quattro anni,
il fesso per tutta la vita».
Sul piano metrico si può notare che in questa quartina si alternano endecasillabi (versi dispari) e ottonari (versi pari: il primo di essi è sdrucciolo: il verso termina con Sìn-ne-co).
Qui sono messe a confronto due figure, opposte soprattutto sul piano culturale: il fesso e il Sindaco; lo sciocco, il babbeo del paese da una parte, e il Sindaco con la sua alta carica e autorità dall'altra. Ma il fesso sembra volersi prendere la rivincita (perciò: “fesso non era”, a suo modo sapeva ragionare anche lui); la carica era limitata a soli 4 anni, lui invece, sciocco lo era per tutta la vita!
Sul piano morfologico, da notare in Sindaco>Sinnaco l'assimilazione nel gruppo -nd- della seconda consonante alla prima (-nd- diventa –nn-) come in quando>quanno, ecc.
Nel terzo verso poi in dura>rura il passaggio della D in R, caratteristica della lingua napoletana (anche se ciò non capita sempre, ma spesso la D resiste; per es. domani>dimane, ecc.).

Ricette chillo annanz'o piatto:
«Panza mia, fatte vótte».
Traduzione:
Disse quello dinanzi al piatto:
«Pancia mia, fatti bótte».
Sul piano metrico c'è da dire che i due versi non hanno la stessa lunghezza; però è da notare che in entrambi vi sono quattro accenti tonici; quindi il ritmo è lo stesso (Ricètte chìllo annànz'o piàtto // Pànza mìa, fàtte vótte). Da notare comunque una forte consonanza tra piatto e vótte; inoltre qui si può parlare di allitterazione, perché si notano anche altre due parole in cui è presente il gruppo -tt-: ricette e fatte. Non crediamo che si tratti di un caso fortuito, bensì di parole appositamente ricercate per ottenere un certo effetto fonetico.
Sul piano morfologico, in bótte>vótte c'è il passaggio di B a V, come in tante altre parole del nostro dialetto: braciere>vrasera, bacio>vaso, ecc.
Si dice di chi, affamato e avido, trovandosi davanti ad una tavola ben imbandita, invita la sua pancia ad allargarsi come una botte, per accogliere ed ingerire quanto più cibo possibile, a costo di sentirsi male.

Ricette 'a vaglina:
«Fatico, fatico:
sempe scàusa vaco!».
Traduzione:
Disse la gallina:
«fatico, fatico,
sempre scalza vado».
Sul piano metrico, si tratta di tre senari; da notare l'assonanza tra fatico e vaco.
Scàusa: scalza; la L che chiude la sillaba scal- nel nostro dialetto si trasforma in U; si veda l'esempio di “alto” che dà luogo a jàuto o gàuto.
Il wellerismo esprime, con un senso di pessimismo e di accettazione, l'impossibilità di miglioramento sociale da parte dei ceti popolari.

Ricette 'u pàppece
vicino â noce:
«Tiempo pô passà,
ma te spertóso».
Traduzione:
Disse il tarlo
Alla noce:
«Tempo può passare,
ma ti buco».
Sul piano lessicale troviamo qui due parole interessanti: Pàppece (tarlo, tonchio, punteruolo) insetto che fora per lo più cereali e legumi (dal lat. pappare : divorare); il verbo spertosare: da pertuso + s- prefisso con valore intensivo; dal verbo lat. pertundo, -is, pertudi, pertusum, -ere; dal supino latino il nostro pertuso. Da notare poi l'uso, nel nostro dialetto (ma capita anche nella lingua italiana), della preposizione impropria “vicino a” invece di quella semplice (“a”): il pàppece disse “alla” noce.
Sul piano metrico da notare l'assonanza tra la sillaba finale di pàppece e quella di noce; inoltre tra noce e spertóso. Dal punto di vista strofico, invece di una quartina, potrebbe trattarsi di un distico di endecasillabi, se si aggiunge il pronome soggetto di spertoso (ma “je” te spertoso).
Quanto al senso, si dice di un'azione che richiede molto tempo, ma alla fine si realizzerà.
Corrisponde alla frase latina “Gutta lapidem cavat” = la goccia scava la pietra; la goccia di acqua che cade sempre sullo stesso punto di un sasso, riesce a fare un buco su di esso.
È l'elogio della pervicacia, del non darsi mai per vinto, dell'insistere nel perseguire un buon fine.
NOTA: per quanto riguarda le fonti di questi wellerismi, citiamo l'Ins. Gabriele Bovenzi di Pignataro, residente a S. Maria C. V., che il 18 gennaio 1997, ci riferì quello riguardante «Panza mia, fatte vótte»; circa gli altri, siamo debitori alla nostra consorte e ad altri parenti.
Invitiamo i gentili lettori a farci pervenire altri wellerismi, o detti in generale, o anche varianti di quelli da noi qui riportati.

Antonio Martone
(da Il Sidicino - Anno XI 2014 - n. 3 Marzo)